Con un certo tal orgoglio stringo nel pugno la scaletta del concerto, guadagnata grazie alla provvidenziale presenza, al mio fianco, del mignolo d'una delle mie più grandi amiche. E' da poco passata la mezzanotte e mezza e sto lasciando Il Prato della Villa Medicea, ad Arezzo. Mi sembra ancora di vedermi camminare in una plumbea giornata settembrina, col naso rivolto verso case dai mattoni scozzesi. Scotland's for me, diceva una delle borse sotto il gazebo del merchandise.
Più indietro nella serata. Per poter godere dello Spettacolo c'attende una lenta agonia. I Baustelle. Non potevo immaginare fossero così soporiferi, davvero, un'ora e più di canzoni che suonano come se fosse stato messo un loro cd su uno stereo. Quel tipo di perfezione che porta a chiedersi maliziosamente se non facciano qualche fuori programma per paura di sbagliare. Dopo le innumerevoli occhiate all'orologio e gli sbadigli, si passa al vero concerto della serata.
Un'abbondante cortina di borotalco appesantisce l'aria, loro entrano, radiosi, Stewie in completo elegante, la giacca che cela una furbissima maglietta degli Smiths.
Aprono con una canzone nuova, I didn't see it coming (il signor Internet dice che è stato così anche per gli ultimi concerti), che rende giustizia alla tenerezza di Sarah Martin; lei se la sorride sul palco.
Poi s'esplode con I'm a cuckoo, e Dio solo sa dove Murdoch trovi tutta quell'energia per scuotersi come un quindicenne sul palco. Andrà avanti così (più che avanti, in ogni direzione con moto rotatorio) per quasi tutta la serata, eccetto alcune pause al pianoforte ed un adorabile fuori programma: la richiesta di due volontarie dal pubblico che ballino al posto suo in The Boy with the Arab Strap. Poi le fa sedere al suo fianco, al piano. Domanda ad una di loro "Can you play piano?", all'accenno negativo di questa risponde con la diplomatica simpatia di un "Oh, look how easy it is!". Questo si che è essere coccolati dalla band del cuore.
L'intero organico sul palco si diverte, le canzoni prendono una piega gioiosa, proprio estiva, l'aria di Arezzo gli ha fatto del bene e non si può non ballare assieme ad uno Stewpot così lanciato. Ci si mette anche il secondo chitarrista, che insegna al pubblico un jingle di "Whooos" per cantare insieme sulla seconda nuova canzone della serata, I'm not living in the real world.
Nelle pause, Stewie si pronuncia più e più volte al microfono, dialoga con il pubblico, dice di sentirne la connection e dietro di me qualcuno lo apostrofa innocuamente, "Ruffiano!". Lui ride e fa ridere, c'è perfino il tempo di festeggiare il batterista con tanto di stappi di spumante e Happy Birthday in coro da tutti noi. Come confezionare un'intima felicità.
Nel mezzo del fiorire dei loro più amati successi (Like Dylan in the movies, Judy and the dream of horses, Me and the Major, Fox in the snow, Get me away from Here, I'm dying, ...) è l'esecuzione di If you're feeling sinister a vincere le mie quasi lacrime ed ogni singola anima intorno.
Alle prime note si dipana un silenzio assorto, tutti sono catturati dal leggero tramestìo di chitarra, l'accurata dolcezza della voce di Stuart sembra leggera nebbia inglese che ci scende sul viso dal cielo stellato. Questo è il racconto di Glasgow, di Hilary che sarebbe andata a morire perchè tutti la credevano noiosa, della credenza vana che le prediche d'un prete possano aiutare qualche anima persa. L'Inghilterra vera e nascosta degli anni 90 diviene chiara quanto il testo dal tono sconfitto di Murdoch, e ricorda pungente ad ognuno di noi che almeno una volta nella propria vita ci si è sentiti degli hopeless unbelievers.
Un piccolo bis, e dopo 16 canzoni impregnate del loro più puro spirito i Belle and Sebastian salutano riconoscenti.
Scotland's truly for us.
Più indietro nella serata. Per poter godere dello Spettacolo c'attende una lenta agonia. I Baustelle. Non potevo immaginare fossero così soporiferi, davvero, un'ora e più di canzoni che suonano come se fosse stato messo un loro cd su uno stereo. Quel tipo di perfezione che porta a chiedersi maliziosamente se non facciano qualche fuori programma per paura di sbagliare. Dopo le innumerevoli occhiate all'orologio e gli sbadigli, si passa al vero concerto della serata.
Un'abbondante cortina di borotalco appesantisce l'aria, loro entrano, radiosi, Stewie in completo elegante, la giacca che cela una furbissima maglietta degli Smiths.
Aprono con una canzone nuova, I didn't see it coming (il signor Internet dice che è stato così anche per gli ultimi concerti), che rende giustizia alla tenerezza di Sarah Martin; lei se la sorride sul palco.
Poi s'esplode con I'm a cuckoo, e Dio solo sa dove Murdoch trovi tutta quell'energia per scuotersi come un quindicenne sul palco. Andrà avanti così (più che avanti, in ogni direzione con moto rotatorio) per quasi tutta la serata, eccetto alcune pause al pianoforte ed un adorabile fuori programma: la richiesta di due volontarie dal pubblico che ballino al posto suo in The Boy with the Arab Strap. Poi le fa sedere al suo fianco, al piano. Domanda ad una di loro "Can you play piano?", all'accenno negativo di questa risponde con la diplomatica simpatia di un "Oh, look how easy it is!". Questo si che è essere coccolati dalla band del cuore.
L'intero organico sul palco si diverte, le canzoni prendono una piega gioiosa, proprio estiva, l'aria di Arezzo gli ha fatto del bene e non si può non ballare assieme ad uno Stewpot così lanciato. Ci si mette anche il secondo chitarrista, che insegna al pubblico un jingle di "Whooos" per cantare insieme sulla seconda nuova canzone della serata, I'm not living in the real world.
Nelle pause, Stewie si pronuncia più e più volte al microfono, dialoga con il pubblico, dice di sentirne la connection e dietro di me qualcuno lo apostrofa innocuamente, "Ruffiano!". Lui ride e fa ridere, c'è perfino il tempo di festeggiare il batterista con tanto di stappi di spumante e Happy Birthday in coro da tutti noi. Come confezionare un'intima felicità.
Nel mezzo del fiorire dei loro più amati successi (Like Dylan in the movies, Judy and the dream of horses, Me and the Major, Fox in the snow, Get me away from Here, I'm dying, ...) è l'esecuzione di If you're feeling sinister a vincere le mie quasi lacrime ed ogni singola anima intorno.
Alle prime note si dipana un silenzio assorto, tutti sono catturati dal leggero tramestìo di chitarra, l'accurata dolcezza della voce di Stuart sembra leggera nebbia inglese che ci scende sul viso dal cielo stellato. Questo è il racconto di Glasgow, di Hilary che sarebbe andata a morire perchè tutti la credevano noiosa, della credenza vana che le prediche d'un prete possano aiutare qualche anima persa. L'Inghilterra vera e nascosta degli anni 90 diviene chiara quanto il testo dal tono sconfitto di Murdoch, e ricorda pungente ad ognuno di noi che almeno una volta nella propria vita ci si è sentiti degli hopeless unbelievers.
Un piccolo bis, e dopo 16 canzoni impregnate del loro più puro spirito i Belle and Sebastian salutano riconoscenti.
Scotland's truly for us.
1 commento:
Voi ve la immaginate la mia faccia mentre leggo questa recensione?
Io ne ho un'idea vagamente confusa.
Io ero lì, posso confermare ogni cosa, ma non avrei mai saputo dirlo così. Giuro.
E' stato come rivivere quella serata in tutte le sue sfumature, in tutte le emozioni, in tutte le sue note.
Ci vuole un certo non so che per far rivivere tutto attraverso una tastiera...mi spiego?
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